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Dalla redazione
domenica 10 ottobre 2021

I monaci Benedettini e la vite

ABBAZIA DI PRAGLIA E DOMINIO DI BAGNOLI


Flavia Tasca

 

Attraversando il territorio dei Colli Euganei e la pianura circostante non si può fare a meno di notare la frequente e numerosa presenza di monasteri, o quel che ne rimane, e di grandi corti benedettine.

Questi complessi architettonici sono le antiche testimonianze, non solo della religiosità, ma anche della laboriosità, che si sviluppò fin dall’alto medioevo in queste zone.

Infatti la presenza di monasteri, abbazie e corti è perfettamente inserita in un contesto agricolo e paesaggistico ben definito. A farla da padrone è senza dubbio la viticoltura, che affonda le sue radici in una storia millenaria arrivata fino ai giorni nostri.

Infatti, nonostante la crisi della viticoltura dovuta alla caduta dell’Impero romano d’Occidente (avvenuta formalmente nel 476 d.C), ciò che permise la sua sopravvivenza fu senza dubbio il Cristianesimo, che investì di significati simbolici ed eucaristici la vite e il vino, e il prestigio sociale che le élite vi avevano attribuito, creando importanti interessi economici.

Il vino diventò così un prodotto di larghissimo consumo, la cui produzione fu regolamentata già in epoca longobarda, come testimonia l’Editto di Rotari del 643, che contiene cinque capitoli dedicati alla viticoltura.

Fu tuttavia con l’età carolingia, come riporta il Capitulare de villis et curtes di Carlo Magno, scritto tra il 770 e l’800, che la cura della vite e la produzione del vino furono guardatI con grande attenzione.

Il mezzo attraverso il quale questo fenomeno si sviluppò fu appunto la fondazione di importanti monasteri benedettini, grazie alla chiesa e all’intervento delle più influenti famiglie nobiliari. 

Il primo insediamento benedettino nella Diocesi di Padova di cui si ha notizia è il monastero urbano di Santa Giustina, attraverso un atto di donazione da parte del vescovo Gauslino nel 971, mentre nel territorio a sud di Padova l’aristocrazia rivestì un ruolo rilevante nella fondazione di ben quattro grandi monasteri: l’abbazia di Santo Stefano di Carrara nel 1027 per volere di Litolfo da Carrara, il monastero di San Michele Arcangelo di Candiana nel 1097 grazie alla famiglia da Calaone, l’abbazia di Santa Maria Assunta di Praglia nel 1117 per volontà dei conti Maltraversi, l’abbazia di San Daniele in Monte nel 1123 voluta dai signori da Montagnone.

Prima dell’anno Mille, nel territorio della Diocesi c'erano anche numerose proprietà di grandi monasteri extradiocesani, come, ad esempio, la curtis di Bagnoli donata al monastero di San Michele Arcangelo di Brondolo (Chioggia).

I monaci benedettini, grazie alla loro regola "ora et labora" svilupparono una notevole capacità organizzativa e, attraverso le loro conoscenze agrarie (tramandate prevalentemente dai testi agronomici romani), riuscirono a razionalizzare le colture, controllare i coloni e il loro lavoro, rendendo possibile un salto di qualità del prodotto enologico. Fra le innovazioni più importanti riguardanti la vite, per esempio, vi fu la gestione del sesto d’impianto, dovuta alla raggiunta consapevolezza che il numero e la disposizione delle piante su una certa superficie influenzava sia la qualità che la quantità della produzione.

Le caratteristiche pedologiche della zona collinare euganea (nel Medioevo detta Pedevenda) permettevano una produzione vinicola di pregio (detto “vino de monte”) e i vigneti venivano acquistati a prezzi significativamente elevati. La sua importanza è anche documentata dall’adozione della misura di capacità standard, la “concola di Pedevenda”, corrispondente a circa 30 litri, che si ritrova nei documenti storici padovani. Diverso invece era il vino coltivato in pianura, (detto “vino de plato”), allungato con acqua e destinato agli ambienti più popolari.

Fra i possedimenti più importanti dell’epoca hanno una notevole rilevanza quelli dell’abbazia di Praglia e la curtis (Dominio) di Bagnoli. Ciò che li differenzia, infatti, da tutti gli altri riguarda la loro compattezza territoriale e la loro continuità nella produzione agricola e vitivinicola giunta fino ai giorni nostri.

L’abbazia benedettina di Praglia fu fondata ai piedi dei colli Euganei tra l’XI e il XII secolo, su una piana alle falde del Monte Lonzina, a una decina di chilometri da Padova, lungo un’antica strada di origine romana che conduceva alla città di Este. Non si conosce la data esatta di fondazione del monastero,ma la fonte in cui è citato per la prima volta risale al 1117: un atto di vendita nomina fra i confinanti di un pezzo di terra l’abbas de pradalla.

La fondazione è riconducibile ai conti Maltraversi, come attesta una bolla di papa Callisto II del 1123. L’abbazia non fu solo un monastero importante sul piano religioso, ma si configurò anche come imprenditore agricolo, secondo solo al monastero di Santa Giustina di Padova per valore ed estensione di possedimenti nel padovano.

In tutta la vasta area della sua proprietà patrimoniale questa abbazia riuscì a far decollare e guidare tutta una serie di iniziative, che si intrecciarono con i suoi interessi economici. Furono attuate imponenti trasformazioni dell’ambiente naturale, fondati nuovi villaggi e nuove chiese.

Dagli inizi del XII secolo la comunità monastica era riuscita ad accorpare nel giro di poco più cento anni la maggior parte dei terreni che avrebbero costituito il suo retroterra economico: le donazioni, le permute, le vendite e le rinunce di fatto si concludono intorno al 1230.

L’abbazia nei secoli successivi attraversò momenti fiorenti e momenti infelici, sia dal punto di vista spirituale che materiale.

L’apice delle vicissitudini che la riguardano giunge il 4 giugno del 1867, quando viene applicata anche nel Veneto la legge del Regno d’Italia, che sopprimeva le corporazioni religiose (la cosiddetta liquidazione dell’asse ecclesiastico).

Il monastero, dopo essere stato spogliato di tutti i beni fondiari, fu anche privato dei dipinti, dei libri, dell’archivio e degli arredi. Nel 1882 un’ampia parte del complesso fu però dichiarata monumento nazionale, mentre il resto dell’abbazia fu spartito fra i vari ministeri.

A Praglia rimasero soltanto un paio di benedettini come custodi del monastero.

Cambiato il quadro storico, i monaci ricomprano il monastero dallo stato italiano, il 26 aprile del 1904, ritornano in sede e il 23 ottobre riprende a pieno la vita regolare che continua a tutt’oggi.

La comunità odierna conta una cinquantina di monaci. Ora l’abbazia comprende un vasto complesso architettonico (circa 13.000 mq di superficie coperta), circondato da campi e vigneti.

Fra le principali attività agricole del monastero risalta fin dalla sua fondazione  quella vitivinicola.

La più antica testimonianza della coltura della vite a Praglia compare proprio nell’atto di vendita datato 1 aprile 1130 con il conte Maltraverso.

Nelle concessioni di affitto, erano ricorrenti termini come plantare vineamvineam relevareplantare de vitibus et olivis quam poterite, che sottolineano quanto fosse importante convertire una parte del terreno a queste coltivazioni, e anche quando queste clausole mancavano, era sottointeso che il lavoro doveva avere gli stessi obiettivi. Sovente i lotti di bosco erano dati in concessione con l’intesa che l’aliquota degli eventuali prodotti fosse corrisposta tam de vinei plantati quam de plantandis (ovvero derivato dalle vigne già piantate e da quelle che sarebbero state piantate in futuro).

Nel XII e XIII secolo era ricorrente la richiesta del tercium congium vini per indicare e richiedere la terza parte della vendemmia o del vino prodotto e, solitamente, il trasporto dell’uva o del vino verso le cantine del monastero era a carico degli affittuari.

Almeno una parte del vino prodotto era di buona qualità, soprattutto quella delle aree collinari, e da esse veniva appunto il vino de monte, ricercato negli ambienti facoltosi.

Il monastero di Praglia realizzava quindi nel suo patrimonio un successo agricolo specie a favore della vite, dell’ulivo e degli ortaggi sulle colline, e nel piano dei cereali, delle foraggere e del lino; ne è prova la sua documentata capacità di rifornire il mercato cittadino di derrate già nel 1205.

Nel 2011 è ripartito con grande impeto il cammino della vinificazione. I monaci si sono concentrati sulla valorizzazione di vitigni storici del territorio (Garganega, Merlot, Raboso...) impegnandosi anche in operazioni agronomiche per limitare il più possibile l’uso di prodotti chimici. Si è provveduto al restauro dell’antica cantina dell’abbazia e l’antico “pozzo alla veneziana” (cisterna dell’acqua) è stato trasformato in una camera di maturazione climatizzata per i vini più pregiati. Nell'abbazia si coltivano 10 ha di vigneto, e la tenuta è tutta a denominazione di origine controllata (DOC) e controllata e garantita (DOCG). La vendemmia è integralmente fatta a mano e tutta la filiera della produzione avviene all'interno dell'abbazia, compreso il confezionamento.

Vengono prodotte due linee di vini: Una per la media e grande distribuzione, e quindi acquistabili anche nei supermercati, e un'altra di nicchia acquistabile on-line, nelle enoteche specializzate o presso la rivendita di Praglia.

Molta attenzione è stata dedicata al packaging e alle etichette delle bottiglie, infatti i nomi dati ai vari tipi di vino ricordano la storia dell’abbazia.

Per esempio i vini spumanti sono denominati: Domus Abbas, Emeritus, Ex Alto; i vini bianchi: Pratalea, Claustrum, Sollemnis; i vini rossi: Torculus, Rubidus e Decanus.

 

Il primo documento, invece, che cita la corte di Bagnolo (Bagnoli dal XII secolo) risale al 95 quando il marchese Almerico II e la moglie Franca ne fanno dono quasi per intero al monastero di San Michele Arcangelo di Brondolo (Chioggia). La corte era composta da una grande casa padronale (l’attuale Dominio) provvista di cappella con un apparato di 125 mansi dove erano insediati un centinaio di lavoratori di condizione libera e 25 servi con le relative famiglie. Se si stima che ciascun manso aveva un’estensione media di venti campi padovani si può ipotizzare una grandezza della corte di una decina di kmq, ovvero come un comune medio della bassa padovana. In tutto questo vasto comparto il monastero di Brondolo diventava l’unico detentore di ogni risorsa naturale.

I monaci amministravano la tenuta di Bagnoli realizzando opere di bonifica, di appoderamento, di difesa dalle acque e costruendo le prime strade. Ogni loro masseria era contraddistinta con il nome di un santo.

Essi portarono nel territorio anche un’alta efficienza produttiva e uno straordinario sviluppo della viticoltura, testimoniata dalla presenza nella curtis di Bagnoli delle più grandi cantine dell’epoca, che potevano contenere oltre 10.000 hl di vino.

Nel 1656 il Dominio di Bagnoli con tutti i suoi beni (tranne i luoghi di culto) venne messo all’asta per finanziare la guerra di Candia, ovvero di Venezia contro i turchi.

L’atto di compravendita da parte dei conti Widmann del 1657 fornisce un’altra interessante testimonianza della vastità e importanza della tenuta. Ci sono descrizioni di importanti superfici vitate, tinozze e bottami, che evidenziano l’esistenza di grandi cantine organizzate.

La tipologia di vitigno che veniva maggiormente coltivata nel Dominio di Bagnoli, e che lo identificava, era il Friularo, a bacca rossa, che deriva dal vitigno del Raboso del Piave.

L’uva Friulara è una varietà autoctona legata al territorio del Conselvano, in particolare Bagnoli, ed ha un’antichissima origine, presente nella pianura veneto-friulana, plasmata dall’azione dei fiumi Tagliamento, Piave, Brenta e Adige. E’probabile che sia discendente diretta del Picina omnuim nigerrima, citata da Plino il Vecchio nella Naturalis Historia, che la descrive, appunto, di un colore più nero della pece.

Sia il vino Raboso che il Friularo erano considerati dai veneziani “vin da viajo” per la capacità di conservarsi a lungo, qualità che li rendeva adatti al trasporto ed a essere imbarcati sulle navi della Serenessima.

Presumibilmente la prima fonte dove si esalta questo vino è del Ruzante: nella “Prima orazione al Reverendissimo Cardinale Cornaro” del 1521. Il primo documento reperito a Bagnoli,in cui si fa specifico riferimento ai nomi dei vitigni risale al 1774; i più diffusi risultavano essere lo “Zovean-Marzemin” e soprattutto il “Friularo”. All’epoca questo vino, proprio per la sua predisposizione all’invecchiamento, costava il doppio degli altri. Anche nei famosi ritrovi mondani organizzati da Ludovico Widmann a metà del “700, il vin Friularo era molto apprezzato, tanto che anche il dottor Ludovico Pastò, nel 1788, gli dedicò un famoso ditirambo “El vin Friularo di Bagnoli”.

Prima dell’arrivo della fillossera, intorno al 1875, nei saggi ampelografici, l’uva Rabosa – Friulara era forse la più importante del Veneto. In seguito la configurazione ampelografica cambiò radicalmente, provocando la scomparsa della maggior parte dei vitigni autoctoni. Un’eccezione è data dal vitigno Raboso – Friularo che, grazie alla sua resistenza, superò questa terribile malattia, arrivando così ai giorni nostri.

A partire dal 1913 il vin Friularo ha ottenuto una ricca serie di medaglie e di riconoscimenti, come ad esempio il Diploma assegnato al produttore Genoveffo di Bagnoli, in occasione della Mostra Nazionale dei Vini tipici di Casale Monferrato. Nel 1917 il Dominio di Bagnoli venne acquistato dalla famiglia Borletti, attuale proprietaria, e, grazie alla loro lungimiranza, il vin Friularo è stato ulteriormente valorizzato attraverso la ricerca di antiche metodologie di lavorazione unite alle più recenti tecniche di vinificazione, ottenendo nel 2011 il riconoscimento Bagnoli Friularo DOCG. In collaborazione con l’Istituto Sperimentale per la viticoltura di Conegliano e l’Università di Padova, è stata costituita a Bagnoli una banca dati genetica nella quale sono conservati vitigni antichi (circa trenta) pre-filossera. Sono stati anche ricostruiti i vari sistemi di impianto arborato di vigneto di antica tradizione, ora scomparsi.

La maggior parte dei produttori, oltre al Dominio di Bagnoli, è riunita nel Consorzio di Conselve Vigneti e Cantine che comprende circa 800 soci.

A dimostrazione del costante impegno di tutti i produttori, nel 2018, il Friularo è stato premiato con la medaglia d’oro all’International Wine Challange di Vienna, il più importante concorso enologico europeo.

Queste due realtà, quindi, ci fanno capire come, prendendo spunto dalle tradizioni storiche antiche, attraverso ricerche e nuove sperimentazioni si possa ridare una nuova identità al territorio, favorendone anche lo sviluppo economico.

Le vicissitudini storiche di queste aree, infatti, hanno spesso portato all’abbandono delle attività agricole per investire in altre attività produttive, a volte anche con gravi ripercussioni ambientali, ma negli ultimi decenni si sta fortunatamente assistendo ad una nuova inversione di tendenza.

Ci si augura, pertanto, che gli ottimi risultati ottenuti dai vini del Dominio di Bagnoli e dell’abbazia di Praglia siano solo l’inizio di una nuova storia….

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