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Dalla redazione
martedì 30 gennaio 2024

Josko Gravner

Un uomo che è contadino, vignaiolo e un po' filosofo


di Luciano Ferraro

“Il primo vignaiolo del mondo”. Così Luigi Veronelli definì Joško Gravner. Quello che ha portato uno sconosciuto produttore di vini di un luogo di confine, sospeso tra gli echi della guerra fredda, a diventare una leggenda della poesia sotto forma di vino, è innanzitutto un percorso interiore. Quando lo vedi con il suo sorriso ampio e la camicia chiara, Joško sembra il frutto di una continua macerazione dei propri pensieri. Alimenta la sua leggenda, in modo involontario, con  un’insieme di ombrosità, timidezza e mutevolezza delle proprie idee. Il tormento, gli errori e la strada ritrovata: se la sua vita fosse un romanzo, si intitolerebbe così. Di errori ne ha fatti, ed è lui stesso a parlarne quando gli va di raccontare i suoi inizi. Ma non ha dentro di sé, Joško, l’esuberanza di chi commette passi falsi sapendo di poterselo permettere, perché tutto alla fine poi si aggiusta. Non farà mai un bilancio della sua vita come quello del compianto Gianni Mura, cronista di campioni e di gregari: “Confesso che ho vissuto, che ho mangiato, che ho bevuto, che ho sbagliato. La maggior parte degli errori, in gioventù” (“Non c’è gusto”, Minimum fax).

Il suo percorso l’ha portato a sbarazzarsi dell’attrezzatura appena acquistata quando convinse il padre a portare modernità ad Oslavia. Doveva ancora pagarli quei simulacri d’acciaio, che già aveva la mente altrove. Fino a quando, in Georgia, ha trovato l’ispirazione per cambiare il vino e se stesso, rintracciando l’autenticità smarrita.

 

Il presente

Adesso, a 67 anni, Joško Gravner, è più che mai il signore delle anfore. Vive opponendosi alle mode, al confine tra il Collio italiano e la slovena Brda. “Qui a Oslavia siamo alla fine del mondo – racconta Mateja, una delle tre figlie – ci siamo accorti della pandemia quando tutto attorno a noi si è fermato. C’è stato qualche problema al confine, abbiamo vigne sia a Runk e Slatovnik in Italia, sia a Hum e Dedno in Slovenia. Ma siamo privilegiati, possiamo dedicarci alle vigne. In cantina abbiamo capito che la fermentazione è migliore se assieme agli acini ci sono i raspi”.

Niente chimica, Gravner ha scelto la biodinamica. “Abbiamo estirpato i vitigni internazioni – spiega Mateja – ma prima abbiamo piantato altra ribolla”. Da quando ha venduto le vasche inox per dedicarsi alle anfore, Joško ha ripreso tecniche dimenticate. Come proclamò Veronelli, è il primo vignaiolo italiano “ad aver compreso l’equivalenza terra-anima”.

 

L’ultimo Breg

Chiunque abbia scritto di lui nell’ultimo ventennio, lo ha osannato come il poeta che si aggira tra le anfore (una cinquantina, in argilla georgiana, rivestite di cera d’api, che consentono di produrre ogni anno fino a 34.000 bottiglie) capace di iniettare longevità al vino. È stato pluri premiato per il Breg (di cui è uscita in questa primavera di quarantene diffuse l’ultima annata che sarà mai prodotta, la 2012). È un uvaggio di chardonnay, sauvignon, pinot grigio e riesling italico. Ora Gravner si dedica solo, per i bianchi, alla ribolla gialla. E anche questo è il frutto di una riflessione lunga, lunghissima, iniziata quando Veronelli gli consigliò di concentrarsi soprattutto su questo vitigno autoctono. Ma se si vuole ascoltare la filosofia del vino secondo Gravner bisogna fargli descrivere un altro “figlio”, il rosso Rujno, il suo Merlot con Cabernet Sauvignon dal Collio goriziano, prodotto solo nelle annate 1982, 1985, 1989, 1990, 1994, 1997, 1999, 2001, 2003 (Nel 2010 ha invece prodotto il Rosso in anfora a base di Pignolo).

Rujno è una parola croata. Significa rosso come le foglie d’autunno. “È anche sinonimo di vino - spiega Gravner - lo usa anche France Prešeren, il più grande poeta sloveno. Indica il vino semplice, che fa divertire. È come lo vedo io. Mi hanno attaccato perché ho detto: se vuoi produrre il vino non studiare enologia, scegli filosofia. Volevo dire di non fermarsi alla tecnica, quella si impara. Se hai un pensiero e basi culturali, è molto più utile. Un tempo anch’io usavo trucchi tecnici. Poi mi sono stancato. E ho iniziato a togliere il superfluo”.

 

Il vino sta nel pensiero

Non c’è scelta, in campagna e in cantina, che Gravner abbia maturato dopo un colpo di fulmine, il guizzo di un’idea. Tutto è frutto di un percorso lento e ininterrotto con un traguardo che sembra sempre da raggiungere, quello della semplicità, della sottrazione dell’inutile, della verità che diventa bottiglie (poche). Lo ha spiegato in una delle rare occasioni, due anni fa, in cui ha lasciato la pace di Oslavia per, timorosamente, approdare all’allora veloce ed affollata metropoli del Nord, Milano.

“Via le presse pneumatiche, le vasche d’acciaio, i frigoriferi per controllare la temperatura delle fermentazioni, i filtri per le chiarifiche, i lieviti. L’unico additivo che uso – ha raccontato — è lo zolfo”. Negli anni Novanta ha pensato che le viti erano troppo invasive e le ha sostituite con alberi per ricreare il paesaggio originale. Nel 2001, la svolta, le anfore. “Ho scelto quelle georgiane, perché vengono usate da migliaia di anni, sono a forma di cuore e non contengono piombo. Le mie anfore vengono interrate, avvolte dall’argilla per uno scambio e per garantire la temperatura costante. Aiutano l’uva a trasformarsi in vino, da sola. Amplificano la qualità dei chicchi, ma anche i difetti, per questo l’uva deve essere di grande qualità».

I suo vini vengono venduti in tutto il mondo, c’è una vera e propria corte di appassionati che si mette in lista di attesa ad ogni nuova annata. Eppure Joško e la figlia Mateja restano con i piedi per terra. “Non basta più fare vino buono, la difficoltà è venderlo. Esportiamo dal Giappone agli Stati Uniti”.

 

L’anima

All’anagrafe della parrocchia si chiama Francesco, perché in quell’angolo di Italia i sacerdoti non accettavano nomi che richiamassero la Slovenia. Accoglie gli ospiti versando il vino in una ciotola, come ha raccontato Othmar Kiem, il giornalista del tedesco Falstaff che lo ha intervistato prima dell’arrivo del Coronavirus. "L'idea della ciotola mi è venuta in mente quando ho visitato un monastero - ha spiegato -. Il sacerdote ha servito il vino in una ciotola di argilla come espressione di gratitudine per la terra e per apprezzamento per l’ospite. Mi è piaciuto subito."

Vent’anni fa, dopo un lungo viaggio in California, è stato un seguace delle barrique, che usava anche in modo intenso, con un doppio passaggio nel legno nuovo. Una grandinata lo ha poi convinto, nel 1996, a sperimentare la macerazione sulle bucce anche per i banchi, ed anche in quel caso è stata una svolta che ha mosso agli applausi la critica e i sostenitori. Infine Gravner si è convinto che le anfore interrate da 2.400 litri erano, e sono, il contenitore migliore (con una lunga macerazione sulle bucce tipica della zona caucasica dei Kakheti, e ancora più lunghi anni di affinamento). Per specchiare la sua anima nel vino.

 

Articolo originariamente apparso sul numero 01 di Vinetia Magazine nel 2020.

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